Capitalismo carnivoro – Francesca Grazioli

Francesca Grazioli, studiosa di cambiamenti climatici, biodiversità e sicurezza alimentare, con “Capitalismo carnivoro ” (ed. Il Saggiatore) lancia un lucido, potente “J’Accuse!”: Mangiar carne non è più una scelta innocente né tantomeno innocua. Smascherare i processi economici che si nascondono dietro al gesto più abituale e quotidiano dei nostri pasti significa ridefinire chi siamo e in quale società scegliamo di abitare”.

Il libro offre dati, studi e riflessioni su come è nata l’industria agro-alimentare, cosa è diventata e cosa comporta per noi umani, per gli animali non umani, per l’ambiente e per i sistemi di potere capitalistici. Un lavoro lucido e spietato nello smascherare le ipocrisie, gli inganni e gli interessi economici capitalistici che avvolgono e giustificano il consumo di carne, e che riducono tutti i viventi – animali umani e non umani – a mera carne da macello (per ricordare il fondamentale testo di Carol Adams del 1990, pietra miliare nello svelamento dei rapporti di potere sottesi all’industria della carne).

Punto di partenza è un dato numerico: negli ultimi cinquant’anni, la produzione di carne di manzo è più che duplicata, quella di maiale è quintuplicata, la produzione di pollo è fino a dodici volte i livelli registrati nel secondo dopoguerra. Se nel 1961 il consumo annuale di carne pro capite era di circa 20 chilogrammi, oggi è circa il doppio: “La chiave di volta che ha permesso di passare dai settanta milioni di tonnellate prodotti nel 1961, agli oltre 320 nel 2018, si trova in luoghi particolari, dove tutto risponde a una ferrea logica di ottimizzazione, dallo spessore dei muri che li formano, ai corpi che domina, alle regole che impone”. Questi luoghi sono gli allevamenti intensivi, o CAFO – Concentrated Animal Feeding Operation.

L’Autrice riporta le evidenze sul trattamento degli animali negli allevamenti intensivi e nei macelli, luoghi che il capitalismo agro-alimentare tiene ben nascosti: “i macelli, come le prigioni, i manicomi, le stanze per gli interrogatori, i campi di rifugiati, sono luoghi di confinamento, invisibili e inaccessibili”. L’Autrice elenca i crudeli metodi per ottimizzare la produttività, l’abuso di farmaci, le devastanti conseguenze ambientali, ma senza mai cedere al voyeurismo, al dettaglio empatizzante, rimanendo sempre all’interno di una lettura razionale. Tuttavia, la stessa Autrice avverte che “Avventurarsi nel mondo della produzione moderna e intensiva della carne, passata da lusso a snack spensierato, vuol dire calarsi nella tana di un Bianconiglio dai toni gotici. E nonostante i tentativi dell’industria nel disegnare bovini entusiasti al momento della mungitura, galline che scorrazzano con pulcini al seguito e maialini con cappellini di paglia dalle parvenze antropomorfiche che ci invitano nelle loro case tra stili di narrazione fiabesca, il mondo della carne è un mondo più simile a un horror cui è bene prepararsi”.

Parimenti, evidenzia l’Autrice le terribili condizioni in cui sono costretti i lavoratori negli allevamenti intesivi e nei macelli, tra effluvi tossici, batteri resistenti, lame taglienti, violenza e sviluppo di stress post-traumatico.

Ebbene: osserva l’Autrice che l’industria della carne, con gli abusi e gli orrori di allevamenti intensivi e macelli, non è una deviazione occulta del sistema o un’eccezione che va corretta: essa costituisce invece “la logica conseguenza di un processo iniziato da qualche parte in Inghilterra più di due secoli fa, quando si decise di privatizzare le terre di uso comune e far partire il processo industriale capitalista come lo conosciamo oggi, spingendo masse di diseredati nei centri urbani, rendendoli proletariato”.

La iper-produzione di carne e il suo consumo smisurato, lungi dall’assicurare salute e nutrimento a tutti, costituiscono uno strumento di disuguaglianza e dominio: utilizzare acqua e terreni per coltivazioni di soia e foraggio per animali, anziché destinarli a alimentazione umana, comporta deforestazioni, inquinamenti e minore disponibilità alimentare per i più poveri. “Dai salmoni ai polli, servono almeno quattro calorie vegetali per produrne una sola animale. La regina dello spreco è la carne rossa bovina, che tra tutte richiede il massimo sacrificio di acqua, terreno e energia (…) La carne diventa allora disuguaglianza. L’esclusione di una gran parte della popolazione mondiale a questo banchetto è una condizione necessaria al sistema stesso”.

Per porre fine a questa terribile spirale, l’Autrice afferma la necessità di superare le nostre quiete abitudini mentali e superare il “carnismo”, come già definito dalla psicologa americana Melanie Joy, ossia quel sistema invisibile di credenze e istituzioni che promuove il consumo di carne di certi animali rispetto ad altri, come fosse un dato di fatto, una cosa “naturale” e non questionabile: “E’ tempo di riappropriarci di ciò che sembra politicamente neutro, denaturalizzare ciò che riteniamo naturale, per comprendere quali relazioni di potere si nascondano al suo interno” .

La critica alla “cultura carnista” da parte dell’Autrice si spinge fino a porre in questione addirittura l’uso di carne sintetica: non tanto e non solo perché si tratta di una tecnica ancora agli albori che richiederà anni per essere messa a punto su larga scala, ma sopratutto perché, secondo l’Autrice, “non rompe veramente il paradigma dietro la cultura della carne moderna e del sistema del cibo moderno…. Si rafforza la centralità della carne”.

Che fare dunque? A questa domanda – a mio avviso fondamentale -, Francesca Grazioli non risponde. O meglio: risponde dicendo che “in queste pagine non ci sono linee guida, precetti o consigli di comportamenti legati al consumo di carne”, e chiude auspicando un non ben meglio definito nuovo orizzonte, evocando intrecci relazionali “complessi e contraddittori” – con termini che riecheggiano Donna Haraway, ma senza condividerne gli esiti.

Inoltre, dalle esperienze personali narrate dall’Autrice nelle pagine iniziali e finali, si capisce che lei stessa non è vegetariana.

A mio avviso, questa mancata presa di posizione, questo rifiuto di risposte, e la rivendicazione – sottotraccia, ma effettiva – del poter continuare a consumare carne, costituiscono un limite del saggio e una forte contraddizione: date tutte le premesse e riflessioni lucidamente esposte nel corso dell’opera, avrebbe dovuto concludere con quella che – a mio avviso – dovrebbe essere l’unica logica conseguenza, ossia con la affermazione della necessità di modificare radicalmente le abitudini alimentari eliminando tutti i prodotti di origine animale.

L’unica vera forma di ribellione, individuale e collettiva, agli orrori dell’industria della carne e, in generale, agli orrori dell’antropocentrismo, è l’adozione di uno stile di vita vegano e antispecista; e non solo nell’alimentazione, ma in tutte le forme di produzione e consumo, dalle scarpe ai cosmetici. Solo così sarà possibile porre fine a questa spirale di violenze sui animali non umani, sull’ambiente e su noi stessi.

Tuttavia, ragionando in termini di lettura indirizzata a un pubblico vasto e non sensibilizzato sulle tematiche antispeciste, forse la mancata aperta presa di posizione da parte dell’Autrice,  può costituire un modo per rendere più accessibile il messaggio di base, che è, comunque, di contrasto all’industria della carne.